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Giunta dalla collezione Manfrin con l’attribuzione ad Antonello da Messina, mantenuta sino a inizio Novecento, la tavola fa parte delle numerose copie del prototipo antonellesco del Cristo alla colonna oggi al Louvre. L’esemplare custodito allo Szépmüvészeti Múzeum di Budapest firmato da Pietro de Saliba è quello cui si avvicina maggiormente, per modi e fisionomie, il dipinto delle Gallerie, che la critica è pressoché concorde nel riferire al seguace e nipote di Antonello. Questi, originario di Messina, risiede a Venezia tra il 1480 e il 1497 assieme al fratello (anch’egli chiamato Antonello), che alcuni ritengono autore dell’opera in questione, contribuendo alla diffusione nel nord Italia dei modelli dello zio, particolarmente apprezzati dalla committenza di devozione privata. Il formato a mezza figura e il fondo scuro, propri della ritrattistica, scelti per raffigurare il Cristo in un momento di sofferenza fisica e mentale mentre rivolge gli occhi al cielo, innescano un meccanismo di empatia nel fedele; il close-up sul volto dolente di Cristo avvicina il manufatto ad una sorta di icona destinata alla meditazione e preghiera privata. La ripresa della pittura lenticolare e accurata di Antonello è evidente nella resa minuziosa della capigliatura e della barba e nell’inserimento del particolare singolare – ma veridico – dei peli sul petto.