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La scultura rappresenta il Cristo vivente, a figura intera e in posizione eretta, in atto di ostentare le piaghe. Rinvia ad un’iconografia nota come Lebender Schmerzensmann frequentemente riproposta in area tedesca specie in statue scolpite a tutto tondo ma introduce una variante iconografica, ossia il gesto di allungare le braccia aperte e tese con il palmo delle mani ferite rivolte verso il riguardante, estranea alla tradizione nordica. Si tratta di un gesto generalmente associato nella tradizione italiana alla rappresentazione dell’Imago pietatis ossia del Cristo a mezza figura entro il sepolcro − equivalente semantico dell’altare eucaristico − ed è caratterizzato dalla divaricazione simmetrica delle braccia, tenute discoste dal busto e ben tese a formare uno schema piramidale. Ricorre con una certa frequenza anche nella pittura tardogotica veneziana, trovandosi spesso impiegato da Michele Giambono, Giovanni d’Alemagna e Antonio Vivarini.

Dalla combinazione incrociata delle informazioni desunte da un lato dall’attenta osservazione di alcuni aspetti materiali dell’opera, dall’altra dalle risultanze ottenute dalla ricerca storica e archivistica, che ha evidenziato la presenza nella chiesa di Santa Caterina di un altare intitolato al corpo di Cristo, porta ad ipotizzare che sia qui rappresentato un Eucharisticher Schmerzensmann spesso associata alla devozione e alla festa del Corpus Christi. Si tratta di una variante diffusasi a partire dalla metà del XIV secolo, dove il richiamo al sacrificio eucaristico è sottolineato dall’accostamento al Cristo di attributi di chiara evidenza eucaristica, primo fra tutti il calice entro cui si raccoglie il sangue che sgorga dalle ferite.

Si può dunque ipotizzare la presenza di un calice, a completamento della scultura in esame, quale elemento indipendente posato a terra alla destra dei piedi di Cristo (alloggiato nello stesso piano in cui si inseriva presumibilmente la piccola base della scultura per trovare la necessaria stabilità), entro cui dovevano confluire fili metallici, a simulare la fuoriuscita di zampilli di sangue, originati dalle ferite del costato e delle mani.

L’esemplare appartiene a pieno titolo alla storia dell’intaglio veneziano della prima metà del Quattrocento, come prova l’aria di famiglia che vi si ravvisa con i crocifissi usciti dalla bottega dei Moranzone. Deve dunque trattarsi di un’opera prodotta in una bottega d’intaglio veneziana non meglio identificata; la fase di gessatura e policromia, che presenta caratteri specifici, deve invece essere stata affidata ad un maestro di grande abilità che dimostra di far uso di una tecnica tanto meticolosa e accurata quanto quella che avrebbe impiegato in un dipinto su tavola e che si rivela per cultura e temperamento molto affine a Michele Giambono.