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Il ritratto giunge alle Gallerie nel 1850 grazie al legato di Felicita Renier. Variamente attribuita a Giovan Battista Moroni o al Moretto, l’opera viene ricondotta correttamente al pennello del Cariani da Cavalacaselle e Crowe nel 1871. La tela rappresenta un giovane uomo a mezzo busto posto di trequarti che si staglia su sfondo plumbeo e spoglio, al di là di un basso parapetto grigio. Il volto sereno si offre alla luce, proveniente da sinistra, che ne mette in risalto lo sguardo fisso e pensoso. La mano portata al petto, di giorgionesca derivazione, concorre alla definizione psicologica del personaggio assorto in un’intima contemplazione. Il restauro del 2005 ha reso possibile l’apprezzamento della delicatezza dei passaggi di tono e della stesura nonché di singoli dettagli come i fiocchetti che compaiono sotto la tesa della berretta che corona il capo dell’uomo. In piena sintonia con il costume maschile del tempo, il giovane indossa una candida camicia plissettata che spicca sotto il giuppone nero in corrispondenza dello scollo e dai tagli delle ampie maniche. Si scorge altresì una mantellina, posata sulla spalla sinistra, che potrebbe indicare l’appartenenza ad una confraternita. Controversa è l’identificazione del personaggio effigiato. Se Troche (1935) e Dessy (1960) avevano rintracciato delle somiglianze fisiognomiche con il Ritratto oggi a Palazzo Reale di Torino e con uno dei Setti ritratti Albani (il personaggio sulla estrema destra), conservato nella collezione Roncalli di Bergamo, Paoli (2011) si spinge più in là riconoscendo nel gentiluomo dell’Accademia il noto collezionista veneziano Gabriele Vendramin. A parere dello studioso l’opera è, infatti, da identificarsi con «El retrato de esso M. Chabriel Vendramin a meza figura dal natural a oglio» con cui Marcantonio Michiel inaugura la descrizione della collezione Vendramin. Per quanto affascinante, la proposta di Paoli ancora rientra nell’ambito delle ipotesi, ciò che è certo è che Gabriele Vendramin fu effettivamente committente del pittore.

Il ritratto viene considerato opera giovanile del Cariani databile intorno al 1517 prima o al principio del soggiorno a Bergamo del pittore (1517-1523, Pallucchini, 1983). Manca, infatti, quella “squadratura ferma e quasi aspra” (Pallucchini, 1983) dei ritratti bergamaschi e si mantiene una certa morbidezza tizianesca e una lontana eco giorgionesca nello sguardo melanconico dell’effigiato.

Del dipinto sono note due derivazioni: una ad oggi dispersa, già collezione Goudstikker (Amsterdam) e l’altra, copia della precedente, conservata in una collezione privata bergamasca opera probabilmente tarda dello stesso Cariani.