Il dipinto, generalmente datato alla estrema fine degli anni venti, in prossimità all’Andrea Odoni del 1527 di Hampton Court e al Ritratto di gentildonna in vesti di Lucrezia della National Gallery di Londra, costituisce uno dei vertici della ricca produzione ritrattistica di Lorenzo Lotto, sempre capace di cogliere la più segreta intimità dell’effigiato e di offrirla, con il tono di una silente confessione, allo sguardo dell’osservatore. Il giovane, presentato con un taglio a tre quarti, vestito con un elegante abito scuro di aspetto sartoriale, è raffigurato all’interno di un ambiente domestico, in atto di sfogliare, con aria malinconica, un voluminoso libro di conti, rilegato in pelle, posato su un ingombrante tavolo collocato di sbieco. La solida legatura in pergamena, con il risvolto di chiusura, la presenza di una rubrica separata, inserita tra il piatto e le pagine, le annotazioni scritte su due facce affrontate sono tutte caratteristiche che guidano a riconoscere nel volume un libro di conti in cui veniva segnata la contabilità con il dare e l’avere. I segni di barratura sul foglio di sinistra servono ad indicare una rendicontazione conclusa.
Il tavolo, coperto di un panno verde, è disseminato di oggetti molti dei quali attinenti all’attività di scrittura cui si applica il giovane: uno scrigno ligneo con chiavi, dove viene riposto il volume, alcune lettere ripiegate, un calamaio, un anello-sigillo con la corniola incastonata recante uno stemma inciso da imprimere sulla cera lacca. Vi compaiono anche altri oggetti che sembrano rinviare invece ad un universo femminile: uno scialle e alcuni petali di rosa avvizziti, il cui profumo recava giovamento al temperamento malinconico – secondo i trattati medici dell’epoca rende possibile l’allusione ad una situazione di sofferenza amorosa. Enigmatica risulta la presenza della lucertola, dai molti significati allegorici, tra cui quello allusivo alla morte e alla rinascita, frequente in ambito funerario, oppure alla capacità di controllo sulle passioni trattandosi di animale a sangue freddo.
L’interpretazione di questo ricco corredo simbolico, resa più complessa dalla scarsità di notizie sulla identità dell’effigiato, non è affatto univoca e ha dato spazio a molte opinioni divergenti. L’ipotesi più accreditata è che si sia qui colto un momento esistenziale del giovane ovvero il forzato abbandono degli svaghi giovanili, cui alluderebbero il liuto e il corno da caccia appesi al rivestimento ligneo parietale alle sue spalle, a favore dei nuovi impegni assunti nella gestione degli affari di famiglia, allusi dal libro dei conti. L’artista indaga con grande sensibilità e disinvolta naturalezza il carattere umano dell’effigiato, colto nella sua dimensione privata: il volto affilato, di eburneo pallore, e lo sguardo malinconico esercitano una forza davvero magnetica, grazie anche alla luce radente, che fa risaltare i bianchi lucenti entro una tavolozza cromatica castigata, ravvivata dai verdi e azzurri.
La maggior parte degli studiosi tende a riconoscere il giovane in un membro della famiglia Rovero di Treviso, nel cui palazzo il dipinto venne visto nel 1923 da Lucio Coletti che lo riconobbe come opera di Lotto e dove si conservò fino all’acquisto che ne fece lo Stato nel 1930 dall’ultimo discendente, Edoardo Rovero. I due candidati in lizza sono Cristoforo Rovero e il cugino Alvise. Cristoforo, rimasto giovanissimo orfano di padre, si sposò nel 1530, lo stesso anno in cui la madre morì: si trovò così a dover assumere gli impegni connessi all’età adulta, unitamente al dolore per la perdita subìta. Nel caso di Alvise, unico membro della famiglia Rovero di cui siano documentati i rapporti con Lorenzo Lotto, anche se in anni più avanzati, le fonti attestano un temperamento malinconico, da sempre riconosciuto tratto distintivo dell’effigiato.