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Il ritratto fu commissionato a Jacopo Tintoretto intorno al 1550 dal procuratore Jacopo Soranzo ormai ottantenne. Questi, morto nel 1581, acquistò la carica di procuratore de supra nel 1522, in seguito alla vendita di incarichi pubblici attuata dalla Repubblica per finanziare la guerra contro i Turchi a Rodi. L’iscrizione frammentaria presente nella parte alta del quadro si riferisce proprio all’anno di elezione del procuratore e non alla esecuzione dell’opera: IACOBVS SVPERANTIO MDX[X]II. Il legame tra Tintoretto e la famiglia dell’effigiato fu piuttosto stretto in quanto, oltre ad altri ritratti di membri della famiglia (Ritratto di Lorenzo Soranzo, 1553, cat. 308; Ritratto di Benedetto Soranzo, 1563, Harewood House), l’artista effigiò i Soranzo in un celebre ritratto di gruppo con al centro proprio il procuratore Jacopo (oggi nelle collezioni del Castello Sforzesco di Milano, 1550, cat. 64). Nella tela oggi a Milano, destinata all’abitazione privata del committente, Soranzo è immortalato da Tintoretto in maniera più schietta, in diretto dialogo con l’osservatore. Al contrario, il ritratto delle Gallerie, è un’effige da “parata” e ci mostra il Soranzo nella sua veste pubblica, abbigliato con il robone cremisi – come la sua carica richiedeva – e nella consueta posa seduta dei ritratti ufficiali. Seppure la pellicola pittorica risulti piuttosto indebolita, è possibile cogliere l’alta qualità dell’opera che conferma le celebri doti di ritrattista di Jacopo, evidenti sia nella perizia tecnica, apprezzabile nella realizzazione delle mani, sia nell’introspezione psicologica dell’effigiato. Attraverso il sapiente gioco luministico teso a marcare il volto incavato e gli occhi penetranti Soranzo sprigiona una grande potenza espressiva, in grado di trasmettere un forte senso di rigore e severità.