Il dipinto entrò nelle collezioni delle Gallerie dell’Accademia nel 1896 come autoritratto di Giambattista Piazzetta, per cambiare attribuzione nel 1924 quando Fiocco lo assegnò a Luigi Crespi. Nel 1943 l’Arslan lo ricondusse finalmente al catalogo di Federico Bencovich e l’attribuzione venne confermata dalla Moschini Marconi (1970) per le “particolari inflessioni cromatiche fredde e qualche cangiantismo”. Solo un anno più tardi, nel 1971, Pallucchini metteva di nuovo in discussione l’autografia di Bencovich in base a un confronto con un altro autoritratto dell’artista, ma questo parere negativo non impedì a Peter Oluf Krückmann (1988) di inserire la tela nella monografia del pittore dalmata.
Si tratta di un’opera di estrema raffinatezza, databile al quarto decennio del XVIII secolo, che ritrae un pittore sfarzosamente agghindato, secondo la moda del tempo, in abiti di seta decorati da inserti dorati che si accendono nel riverbero di una calda luce proveniente da sinistra. Rappresentato mentre brandisce gli strumenti del mestiere, l’effigiato si volge di scatto verso lo spettatore: con un gesto della mano destra sembra invitare a osservare i suoi libri, tra i quali si riconoscono i trattati di Dürer e di Leonardo e le Metamorfosi di Ovidio, conservati accanto a frammenti scultorei utilizzati per l’esercizio dello studio anatomico.