Il dipinto si trovava in origine nella chiesa domenicana del Corpus Domini, insieme al dipinto con Cristo e la Cananea, nella chiesa del Corpus Domini, ma venne trasferito, a seguito della indemaniazione dei beni successivi alle soppressioni napoleoniche, al Depositorio di San Giovanni Evangelista nel 1832, dove venne indicata negli elenchi come opera di Bartolomeo Scaligero (come la indica Boschini).
La tavola rappresenta l’incontro tra Cristo e la donna samaritana venuta ad attingere acqua al pozzo, narrata dal Vangelo di Giovanni (4, 23). La Samaritana, richiesta da Cristo di dargli da bere, reagisce con stupore essendole stata tale richiesta rivolta da un giudeo. La scritta sul cartiglio al centro della scena (“VERI A[D]ORATORES A[DOR]A BUNT PA/ T[REM] SPIRITU ET [VE]RITATE”) evoca le parole pronunciate da Cristo che, nel confrontare l’acqua del pozzo a quella della Vita Eterna elargita da Dio, afferma che i veri credenti adoreranno il Padre in spirito e verità. Annunciatosi alla donna come nuovo messia, Cristo, seduto accanto al pozzo, è raggiunto dagli apostoli nella parte sinistra dell’opera. La Samaritana è rappresentata due volte: in primo piano a destra, mentre dialoga con Cristo e più indietro, sulla sinistra, in atto di uscire dalla porta di una città, che la scritta frammentaria “EST NO[ME]N SICHAR” consente di riconoscere in Sicar città della Samaria, alla guida di un gruppo di concittadini che conduce a conoscere il Signore.
É probabile che questa scena e quella più rara della Cananea, raffigurata nell’altro pannello, con i riferimenti al cibo e al vino, contengano una allusione ai sacramenti dell’Eucarestia e del Battesimo.
La scelta del tema, che consente di dare in entrambi i casi ampio spazio alla rappresentazione delle donne, fu probabilmente pensata in relazione al contesto del convento di monache domenicane cui i dipinti erano destinati, anche se non si conosce esatta destinazione: dovevano fungere da esempio per le monache che erano portate ad identificarsi con la situazione rappresentata e incoraggiate ad imitarne il modello.
L’opera è databile su basi stilistiche alla metà dell’ottavo secolo del Quattrocento: le tonalità delicate e poco squillanti dell’opera, dovute anche al cattivo stato cui l’opera ci è pervenuta, rispondono ad un tentativo da parte del Bastiani di adattare la propria pittura a quella di Giovanni Bellini a partire dalla Pala Pesaro
Bibliografia:
L. Sartor, “Lazzaro Bastiani e i suoi committenti”, in “Arte Veneta”, 50, 1997, pp. 39-53;
R. Longhi: “L’esordio di Lazzaro Bastiani”, 1925-26 in “Il palazzo non finito. Saggi inediti 1910-26”, 1995; S. Moschini Marconi, “Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte dei secoli XIV e XV”, 1955, pp. 58-59; S.G. Casu, “Lazzaro Bastiani: la produzione giovanile e della prima maturità”, in Paragone/ Arte, Ser. 3 n. 8, Milano 1996, pp. 70-71; G. Russo, “Lazzaro Bastiani prima del 1480”, in Paragone/ Arte, Ser. 3 n. 142, Milano 2018, pp. 6-7.