Nel Libro di Daniele dell’Antico Testamento (Daniele 13, 1-64) è raccontata la storia di Susanna, sposa bella e casta di Ioachim che viene concupita da due anziani giudici che frequentano la casa del marito e che riescono a introdursi nel suo giardino sorprendendola mentre fa il bagno. Nel tentativo di abusare di lei, la ricattano minacciandola di accusarla di adulterio qualora non avesse acconsentito a giacere con loro. Al rifiuto di Susanna, i due si vendicano incolpandola pubblicamente. Solo l’intervento provvidenziale del profeta Daniele riuscirà a salvarla dalla condanna a morte, dimostrando l’innocenza della giovane e la menzogna dei vecchioni.
Il racconto si presta a una lettura morale: la casta Susanna diventa simbolo dell’anima salvata e delle virtù muliebri, mentre i vecchi calunniatori, che cedono alla tentazione e che vorrebbero indurre al peccato un’innocente, sono esempio di malvagità.
Dell’episodio biblico, Palma il Giovane raffigura il momento in cui i due anziani, sporgendosi dal parapetto, formulano la proposta lasciva alla bramata Susanna che, colta nella sua nudità, si sta coprendo con un manto. Susanna rivolge il suo sguardo malinconico verso il Cielo e le sue labbra socchiuse stanno per pronunciare il suo rifiuto: «per me è preferibile non acconsentire e cadere nelle vostre mani, piuttosto che peccare davanti al Signore!» (Daniele 13, 23).
Il dipinto appartiene a quel gruppo di opere datate intorno al 1600, dal soggetto vetero e neotestamentario, di medio formato, a destinazione privata, composte sul contrasto chiaroscurale (Mason 1984, p. 136). I due vecchioni sono calati nell’oscurità, un’ombra profonda invade le loro cavità oculari mentre la loro calvizie è sfiorata dalla luce che invece bagna completamente il corpo di Susanna e le illumina il volto e le morbide carni. Tra le figure si instaura un muto colloquio suggerito solo da intensi sguardi e gesti eloquenti.
La tela non è identificabile con la «Susanna, nel giardino con i due vecchi» del Palma ricordata da Ridolfi (1648, II, p. 201) in casa Dolfin per via della diversità del momento tematico rappresentato (Mason 1984, p.136), anche se alcuni dipinti della collezione Contarini, tra cui quest’opera, appartenevano in precedenza a Bartolo Dolfin (M. Marconi 1962, p. 154). La tela è stata restaurata nel 1845 da Antonio Zambler e nel 1955 da Antonio Lazzarin.